Perdonatemi (lo so che lo farete). Invece che uno dei post che amate di più (e che ho in bozza) oggi vi beccate uno di quelli con zero foto e ispirazioni, ma tante riflessioni.
Di ritorno da Vicenza mi sono ritrovata (come succede ormai con una frequenza allarmante) paralizzata da piccole difficoltà famigliari che hanno reso davvero difficile tenere fede ai tanti impegni che ho per i matrimoni del 2013. È quasi ironico che abbia passato i giorni in fiera a pensare che bisognerebbe vivere questo lavoro con meno personalismi e più ‘business‘!
Il fatto è che da un lato trovo inutile e spesso abbastanza falso l’approccio ‘volemose bene’ che imperversa nel settore da alcuni mesi. Avete presente, no? Quel mix di “dovremmo unirci”, “sosteniamoci a vicenda”, “mi dispiace che non ci sia più la tale collega” che leggiamo ovunque anche tra persone che poi nel concreto fanno ben poco per essere ‘unite’ se non ci trovano un tornaconto (economico).
Io credo che in tutte le professioni ci sia un sano modo professionale di gestire le relazioni tra colleghi/competitor. In passato ho provato spesso a costruire progetti ambiziosi di coesione e collaborazione tra tanti colleghi, ma sono rimasta sempre scoraggiata dalla sensazione che la coesione venisse al prezzo di una uniformazione per me inaccettabile.
Non accetto che si cerchi di tutelare la nostra professione uniformandola, ignorando non solo le differenze territoriali ma anche la libertà imprenditoriale di svolgere la propria attività (nel rispetto della legalità) secondo i propri obiettivi e i propri valori.
Da quel momento ho imparato a gestire le relazioni una alla volta e su misura. Sono aperta a nuovi incontri, amabile e cortese quando conosco colleghi e potenziali collaboratori, sempre disposta a rivedere pregiudizi e conoscere fino in fondo chi ho davanti, serena avendo lasciato da molto tempo fuori dalla porta le paure e le gelosie. Però per arrivare ad aprirmi davvero, a condividere, bisogna che scatti qualcosa di speciale (e raro). Può essere che la persona abbia talento, carisma, simpatia o semplicemente un’affinità personale con me. Ma deve scattare quel qualcosa, se no col cavolo che condivido le mie risorse, i miei progetti e ciò che vorrei fare in questo settore. Anzi, vi dirò di più, se posso sfrutterò ogni cosa che sento per avantaggiarmi sul collega di turno. Con stile, ovvio. Il fatto è che “it’s business, it’s not personal“. È lavoro appunto.
Lo so, la nostra è una professione in cui la passione (e quindi tante componenti personali) ricopre un ruolo eccezionale nel dare motivazione e connotare il nostro lavoro. Crederci e metterci tanto impegno può fare la differenza in ciò che facciamo. Però, fatemelo dire, c’è gente che con tanta passione produce lavori davvero mediocri, senza reale personalità, senza attenzione al cliente e alla sua storia, senza qualità di materiali e manodopera. Ecco, io di fronte a questi colleghi non ho voglia di condividere un percorso, né di condonare un servizio scadente (che fa pubblicità negativa alla categoria) nel nome della buona volontà e della cosiddetta solidarietà tra colleghi. A dirla tutta, se posso evito del tutto di essere associata a queste persone.
Sono cattiva? Forse. Il punto è che sono soprattutto onesta e ho un grande rispetto per le mie priorità e le mie responsabilità.
Preferisco di gran lunga concentrare le mie energie sulla costruzione di relazioni positive e soddisfacenti con le poche persone che possono farmi crescere, insegnarmi qualcosa (e già che ci siamo: no, non tutti hanno qualcosa da insegnare, o comunque non è detto che sia ciò che mi serve o interessa), motivarmi a diventare migliore. A tutte quelle persone che mi regalano la positività di un grande salto in avanti, l’argento vivo delle idee che scoppiettano una dopo l’altra, la magia di creare qualcosa di nuovo e utile.
Sapete perché non sono amica di tutti, felice di lavorare con chiunque, aperta a qualsiasi richiesta? Non è solo una questione di sincerità. È anche e soprattutto che nella mia vita non c’è abbastanza spazio. Ho un marito, due figli, una famiglia, degli amici, tutte persone che lavorano con me da anni (o pochi giorni) per tenere in vita la nostra relazione. E a loro devo tutto. Il tempo per rispondere alle email vacue di aspiranti colleghe (se la scrivete uguale a trenta wedding planner è vacua) è dei miei figli. Il tempo di andare alle fiere locali solo per vedere la parata dei pavoni di fronte alla marchetta di turno (che sia Angelo Garini o Enzo Miccio poco importa) è di mio marito. Il tempo per scrivere su Facebook contro la concorrenza sleale, o per difendermi da chi cerca di mettermi in cattiva luce (mettendo in dubbio che io lavori, che io sia in regola, che io sia capace, che io sia una “vera wedding planner”) è dei miei clienti. Il tempo per sorridere plasticamente e dire “oh, adoro il tuo lavoro” a persone che disprezzo è delle colleghe che si mettono in gioco per costruire qualcosa insieme, di quelle che ammiro e che mi mandano loro sposi (quando hanno sovrapposizioni di calendario) parlando splendidamente di me.
Qualcuno ha detto che l’equilibrio di vita, tra lavoro e famiglia, tra passioni e necessità, sia un’utopia. Forse è vero. Ma la risposta non può essere nel trasformare tutto in una farsa personalistica, in cui siamo tutti amici e speciali. Perché per citare l’immortale Mr. Incredibile, quando tutti sono speciali, nessuno lo è. E io preferisco un mondo in cui qualcuno sia speciale. Anche se significa che mi troverete antipatica, arrogante e presuntuosa.
p.s. martedì ci troviamo qui con un post pieno di annunci. Le date del corso promessisposi, il grande ritorno di #ffair, alcuni appuntamenti e una mini-pianificazione dei contenuti del blog!